"Accumoli" di macerie
di Gianluca Erroi

Non doveva essere molto diversa l’Italia, alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, quando paesi interi, con la loro vita e le loro realtà, vennero dilaniati, distrutti, quasi cancellati dalla furia degli eventi bellici.
Così si presenta oggi, per chi si trovasse a transitarvi, la valle di Accumoli e Amatrice, nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Una costellazione di piccoli borghi arroccati su alture verdeggianti che dalla Via Salaria appaiono in alto, feriti, silenziosi, deserti. E abbandonati, in effetti, lo sono stati. Di fretta e furia, tutto in una notte, quella tra il 23 e 24 agosto scorso, quando un violento terremoto ne ha improvvisamente fermato il tempo. Amatrice è distrutta, Accumuli in ginocchio, Illica, una frazione con poco più di cento case, non esiste più. E ancora, Poggio D’Api, Libertino, Tino, Poggio Casoli, Grisciano, Arquata e Pescara del Tronto. Insomma: un bollettino di guerra.
In questa realtà di distruzione, lontana anni luce dalle immagini virtuali trasmesse dalle televisioni in quei giorni, l’architetto volontario è chiamato a muoversi, a destreggiarsi, a formulare lucide diagnosi su ruderi ancora fumanti, costantemente in bilico tra la freddezza del Professionista e la sensibilità dell’Uomo. Un'esperienza forte e formante, di cui l'unicità e il senso, solo col tempo si potranno misurare.

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Nella settimana trascorsa in quelle terre martoriate, in luoghi dove è difficile rimanere impassibili e controllare le emozioni, camminando su cumuli instabili di macerie che anche gli occhi maturi di un quarantenne faticosamente riescono a concepire, più volte mi sono chiesto il significato di questo “offrirsi”. La risposta è giunta al rientro, una volta tornato alla normalità dell’attività professionale, quando il vuoto che caratterizza la vita quotidiana è entrato in contrasto stridente coi ritmi incalzanti dei giorni precedenti, apparentemente uguali uno all'altro ma sostanzialmente diversi, e tutti ugualmente capaci di lasciare un segno profondo, come tacca indelebile sulla coscienza. E così, mentre scrivo seduto alla scrivania del mio studio, negli occhi vivide appaiono le immagini forti di questa esperienza. Le braccia, le gambe, ancora portano i segni della fatica, di sopralluoghi spesso condotti in condizioni al limite della sicurezza, e nella memoria riaffiorano i visi di tutte le persone incontrate, ognuna con la propria esperienza, ognuna con la propria vita profondamente lacerata dal dramma di chi ha perso tutto, o quasi. Presenze forti e deboli al contempo, in cerca di una spalla a cui aggrapparsi e su cui piangere.
Ma, al di là dell’aspetto umanitario con il quale ognuno si misura e si rapporta nell’intimità della propria coscienza e che, per importanza, prevarica ogni logica legata alla professione, quello che questa esperienza lascia, oltre ad una grande forza interiore, è la convinzione che l’Architetto abbia tutti i mezzi per scoprirsi attore protagonista in ruoli nuovi, un tempo, forse, riservati esclusivamente ad altre figure professionali.

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È successo, per esempio, che durante i sopralluoghi ad Accumoli più volte mi venisse attribuita erroneamente la qualifica di Ingegnere, invece del più corretto titolo professionale di Architetto. Credo che ciò fosse dovuto al fatto che è insita, nell’immaginario collettivo, la convinzione che il ruolo di censore dei danni e delle agibilità degli edifici colpiti dal sisma spetti di diritto alla categoria degli ingegneri. Un architetto calato in questa veste quindi, semplicemente è considerato “fuori luogo”, in difetto, quasi non all’altezza. L’esperienza vissuta nei luoghi colpiti dal sisma però, ha dimostrato, ancora una volta, che questa convenzione può essere scardinata. Attenzione, nessuna prevaricazione di ruoli, ma solo una nuova consapevolezza delle proprie possibilità. Se “L’Architetto inizia dove finisce l’Ingegnere”, per dirla con Walter Gropius, allora forse, l’insegnamento che si desume da questa esperienza è la presa di coscienza che, grazie alla sua sensibilità culturale unica per formazione e forma mentis, e grazie alla specificità professionale, l’Architetto può veramente contribuire alla rinascita di quelle realtà duramente provate dalla furia degli eventi naturali, fornendo tutti i mezzi necessari per una ricostruzione critica, storicamente giustificata e giustificabile. E allora tornano alla mente le parole di Renzo Piano che, in un articolo riferito proprio alle conseguenze di questo evento tragico, ha detto “C’è un legame indissolubile tra le pietre e le persone che le abitano”. Quest'esperienza ci lascia questo: la certezza che all’architetto, e solo a lui, è riservato il difficilissimo compito di ricucire quell’indissolubile legame tra pietre e uomo, violentemente strappato nella notte tra il 23 e 24 agosto scorso, nella valle di Accumoli e Amatrice.

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Squadra P490: Gianluca Erroi e Marco Persico a Rieti, davanti all'edificio della DICOMAC.

17 ottobre 2016

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