Il patrimonio vulnerabile
di Monica Aresi

San Ginesio è il Comune del maceratese dove la mia squadra ha operato nella settimana tra fine settembre e inizio ottobre. È un bel borgo murato, di epoca basso medioevale, circondato da un ampio territorio collinare, posto all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini, da cui si può godere una visione a 360° sul paesaggio circostante. Un luogo che è al contempo unicum ed emblema di una condizione comune a molti paesi marchigiani, del centro Italia e, si potrebbe anche dire, dell’intero Paese. Un luogo con tante storie e microstorie da raccontare, un territorio costruito, fatto di persone e contrade, di complessi monastici e di aziende agricole, di palazzi rinascimentali e di “case sparse”, tutti fattori connessi in modo intimo e, mi piace pensare, indissolubile, tra loro.
Durante i sopralluoghi svolti sugli edifici colpiti da sisma, tante volte, per rilevarne il danno e determinarne l’esito di agibilità, abbiamo dovuto basarci sull’osservazione di alcuni nodi “critici” delle costruzioni, delle cosiddette interferenze e interfacce tra le loro parti strutturali, più che esaminarne il loro comportamento globale. D’altro canto, un’ispezione di tipo speditivo com’è la nostra, comporta come principale strumento interpretativo l’analisi visiva diretta.

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In modo ricorrente abbiamo rilevato murature discontinue o non ammorsate, assenza di connessioni tra gli orizzontamenti e i muri perimetrali, sfilamento di travi e travetti dei solai, presenza di murature “a sacco”, inefficienza di presidi e rinforzi locali, solai appoggiati al solo paramento interno della muratura, coperture spingenti e pesanti, e così via. Tutti stati del manufatto che venivano appuntati durante l’indagine in sito e discussi prima di definire la risposta dell’edificio in termini di agibilità, e tutti fattori che danno conto della elevata debolezza intrinseca degli edifici cosiddetti “ordinari”.
A questo si aggiungevano le specificità delle singole fabbriche, derivanti dalla loro storia, dalle trasformazioni (non solo di carattere strutturale) subite nel tempo, dagli usi che si sono succeduti, ossia di una serie stratificata di modifiche che, se non adeguatamente realizzate o se non tollerate dall’edificio esistente, non hanno fatto altro che minarne l’affidabilità in relazione all’azione sismica.
Nella prevalenza dei casi analizzati, erano assenti o, se esistenti, molto labili, quei legami tra le diverse parti strutturali dell’edificio atti a costituire un buon sistema “scatolare”, e dunque a garantire un buon comportamento sotto le azioni orizzontali generate dal sisma, quali catene longitudinali volte a “legare” murature d’ambito, elementi di controventamento, in pianta e in alzato, coperture non spingenti e non pesanti, ecc.
Come ulteriore fattore di vulnerabilità – perché di questo si sta parlando –, in alcune situazioni, ci siamo trovate di fronte a interventi di presunto consolidamento, realizzati anche recentemente, che hanno completamente ignorato la costruzione esistente, giudicata a priori inadeguata, optando per l’utilizzo di criteri costruttivi che si utilizzano generalmente per i nuovi edifici. Tra tutti ricordo cordoli e coperture in cemento armato, non ammorsati alle murature. Murature, per altro, molto irregolari e con giunti e letti di malta quasi del tutto inesistenti.

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Durante lo svolgimento dell’attività, molte volte mi sono chiesta se e come si sarebbe potuto evitare un danno così importante agli edifici (seppur limitato rispetto alle zone epicentrali del sisma), con la conseguenza, per gli abitanti, di dover lasciare la propria casa e con il rischio di “abbandono” del paese, o di alcune sue parti. Pur non trovando risposte certe, ho riflettuto sull’apporto insieme culturale e tecnico che gli architetti, e i professionisti tutti, hanno in queste circostanze. E ripongo estrema fiducia nel loro ruolo di saper governare sapientemente le trasformazioni sulla fabbrica derivanti dalla progettazione antisismica, adeguando o, meglio, migliorando la costruzione esistente, senza snaturare i contesti in cui tali edifici sono posti, perché questi continuino a raccontarci delle storie, perché siano incessantemente interrogabili, perché su di essi proseguano a stratificarsi usi, memorie, immagini e testimonianze.
La prevenzione sismica (ma non solo) del patrimonio diffuso o “minore” è insieme una sfida e un monito; l’elevata vulnerabilità delle costruzioni non può condurre a “gettare la spugna” e ad accontentarsi di espedienti tecnici standardizzati o di soluzioni poco studiate o fortemente invasive, proprio in virtù di quella intrinseca bellezza che caratterizza i luoghi, le case e i paesaggi.

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Squadra P669. Da sinistra: Silvia Vitali, Monica Aresi.

4 novembre 2016

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